Volere Volare
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Afghanistan. Un lembo di terra al confine con il Pakistan dove si trova il mio villaggio. Vivo con mio padre, mia madre e mio fratello. Stiamo bene. Abbiamo la terra e coltiviamo pomodori, fagioli e tanti ortaggi. Sì, stiamo bene. Dopo cinque anni di scuola inizio a lavorare, in una bottega di un amico del papà che faceva il sarto. Il primo anno lavo e spazzo i pavimenti, poi imparo a tagliare e cucire. Sto diventando bravo. Tutto scorre serenamente. Gli occhi di un bambino hanno bisogno di incrociare gli sguardi attenti e protettivi della propria famiglia e non si accorgono se a pochi chilometri cade una bomba, se c’è tensione. È la normalità, il quotidiano, e non esistono altre realtà. Mio padre muore quando ancora non sono nemmeno adolescente. Ora sono io il capofamiglia. Mio fratello è piccolo e mia madre ci accudisce. Nel paese le donne non lavorano e nemmeno studiano. Non c’è molto nel villaggio, l’ospedale è lontano e molte mamme perdono la vita morendo di parto. Tutto scorre coralmente. Ci conosciamo uno ad uno ed esiste quella solidarietà antica, tribale, nobile. Un giorno si presenta in negozio un signore distinto. Deve recarsi a Kabul per un appuntamento importante e vuole un vestito per il giorno stesso. Non ce la faccio a finirlo in poche ore. La mattina dopo lavoro come un pazzo e la sera il completo è pronto.  Telefono al signore per portarglielo a casa con la mia moto. Mi indica la via. Non conosco bene quel quartiere. È tardi, le undici di sera. Da noi c’è il coprifuoco ed è pericoloso uscire di notte, ma per assolvere l’incarico prendo la moto e mi avventuro per le strade buie nel tentativo di trovare presto la casa del proprietario del vestito. La polizia mi segue, ingenuamente mi fermo e ritelefono per avere indicazioni più precise sul posto fissato. All’improvviso scoppia una sparatoria. I talebani mi devono aver visto da qualche casa vicina fermarmi inseguito dai poliziotti. Sicuramente pensano che io sia una spia. La polizia, di contro, pensa che sia d’accordo con i talebani. Mi trovo in mezzo a una situazione più grande di me. Lascio la moto e inizio a correre, a scappare. Vengo a sapere poi che c’è stata una carneficina. Da mio suocero mi giunge la notizia che già mi cercano, di certo con pessime intenzioni e fuggo verso Kabul. Mio fratello avrebbe dovuto portarmi i documenti, ma lo prendono e da quel giorno non ho più notizie di lui. Ho anche una moglie ed è incinta di sette mesi quando scappo. Inizio il lungo viaggio attraverso l’Iran, la Turchia, la Bulgaria, l’Austria fino in Italia. Tre mesi di paure e fatiche. Riesco a raccogliere diecimila euro ed è questo il prezzo che pago per i passaggi fino a Trieste. Nascosto in tante macchine, parole d’ordine per non farmi scambiare per poliziotto, codici segreti ad ogni incontro, da un confine all’altro, spesso a piedi, giorni e giorni senza cibo, giacigli tra i prati e le montagne, le piazze e le stazioni. Ora è un anno che sono qui, a Trieste, e grazie alla Caritas e all’ICS finalmente sono riuscito ad ottenere i documenti, per cinque anni. Posso lavorare, posso trovare una casa, ma chi mi darà la dignità di essere indipendente, è tanto difficile. Ho venticinque anni, sono un sarto provetto ma sono cosciente di quanto lungo e duro sarà il mio futuro. Per un anno ho pensato, pensato e ripensato alla mia mamma che rimasta sola vive con suo padre, a mia moglie e al bambino che non ho nemmeno visto nascere. Non posso più pensare, altrimenti il dolore mi potrebbe sopraffare, così ho tagliato nella mente il passato e tutto si è confuso. Prego, mi aiuta. Imparo l’italiano. La lingua è importante. Alcune immagini scorrono ancora nella testa. Le bombe, gli americani, i soldati della Nato che non parlavano con noi, giravano chiusi in macchina per poi bombardare anche gli ospedali. I talebani. La polizia. Prima non capivo, poi ho visto. Una guerra senza fine, subdola, nascosta, trasversale. Dita mozzate per non permettere le elezioni. Spari senza un perché. Bombe, bombe e ancora bombe, razzie. Se ho speranze? 

Silenzio. Un sorriso triste alla ricerca di un’empatia che non potrà mai esserci. Non possiamo capire, solo immaginare uno strazio e ricambiare il sorriso. Uno sguardo d’intesa. Ci siamo sentiti. A pelle. Un abbraccio.

Testimonianza di M.